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SERTUBI, É ALLARME. A RISCHIO GLI ULTIMI 70 POSTI DI LAVORO

E’ scattato l’allarme per Sertubi di Trieste e per i suoi 70 dipendenti rimasti. Lo stabilimento di via Von Bruck sembra, infatti, essere destinato alla dismissione, condannato, nella migliore delle ipotesi, a diventare un semplice centro di smistamento dei tubi prodotti ormai quasi per intero in India. A far scattare il codice rosso, convocando stamani una conferenza stampa, sono le Rsu del sito giuliano, assieme alla Cisl Friuli Venezia Giulia. “Sotto il capannone dell’azienda si respira una pesante aria di sconfitta” –  commenta a caldo Michele Pepe, delegato della Fim. “Eppure, se solo ci fossero un piano industriale serio e investimenti, Sertubi potrebbe tornare ad essere una regina del mercato”.
Il mostro da combattere, però, si chiama concorrenza: quella dei Paesi extra Ue, tutta giocata sui prezzi. E nel caso di Sertubi, la situazione è ancora più difficile da digerire perché il competitor più “spietato” è il produttore Elettrosteel, indiano come l’affittuaria di Sertubi, la Jindal Saw.  “Il punto – spiega Pepe – è che i tubi cinesi, indiani, russi sono della nostra medesima qualità, soddisfano le regole europee, ma riescono a costare anche il 25% di meno”. E se negli altri Paesi sono scattati gli aiuti di Stato in favore delle aziende locali (è, ad esempio, il caso della francese Pam Saint Gobain), in Italia questo non accade.
E’ chiaro – sintetizzano Alberto Monticco per la Cisl Fvg e Umberto Salvaneschi per la Fim Cisl – che la questione va portata immediatamente all’attenzione dei tavoli nazionali, gli unici che possono fare leva sulla proprietà”. Di qui l’appello alla governatrice Debora Serracchiani: “L’intervento della Regione su questa partita diventa assolutamente primario”, “anche – aggiunge il nuovo coordinatore dell’Ast Cisl Trieste Gorizia, Gioacchino Salvatore – per impedire la desertificazione industriale di un territorio come quello di Trieste, già pesantemente in sofferenza”.
“La nostra intenzione – aggiunge Pepe – è quella di arrivare fino ai vertici dell’Unione Europea, perché il problema sta a monte, e non riguarda solo Sertubi, ma tutte le imprese: dobbiamo batterci tutti assieme per ottenere che nei capitolati dei bandi di gara sia imposto che almeno il 25-30% dei prodotti sia di origine europea”.
Altrimenti continuerà a succedere, come è stato per Sertubi, che la produzione si sposterà sempre di più ad est e che la manodopera europea sarà occupata, finché durerà, soltanto nell’assemblamento di componenti o smistamento di un prodotto finito altrove.
“Solo se riusciremo a mantenere quel minimo di produzione nazionale e europeo – incalza pepe – impediremo che i prezzi siano decisi dagli altri, cosa che già oggi di fatto sta accadendo, a vantaggio di un prodotto sempre più economico e di qualità appena accettabile”.
La storia di Sertubi
Nata sulle ceneri di Grandi Motori, Sertubi vive i suoi primi dieci anni sotto l’ala de gruppo Duferco Italia Holding, che beneficia del sostegno pubblico (terreni ceduti a prezzi vantaggiosi), per investire nell’area triestina (assorbimento dell’emorragia occupazionale). La produzione arriva a 75mila tonnellate l’anno, coinvolgendo 250 addetti.
Tuttavia – secondo l’amministratore delegato Antonio Gozzi – l’investimento si rivela “tragico”, con perdite in dieci anni pari a 8 milioni di euro, a causa del dimezzamento del mercato di tubi per acquedotti.
Nel 2011 lo stabilimento triestino viene ceduto in affitto agli indiani di Jindal Saw, che promettono investimenti pari a 5 milioni di euro, finalizzati a rimodernare gli impianti e a migliorarne i punti critici. Tali investimenti, però, non vengono attuati e, ad oggi, le perdite, in sei anni, sfiorano i 20 milioni di euro.
Oggi Sertubi ha cambiato mestiere: da produttore del tubo è diventata – da un lato – centro di smistamento per tubi finiti completamente in India e sottoposti a dazio e – dall’altro lato – importatore di tubi grezzi da completare, con lavorazioni come il rivestimento in zinco esterno, la cementazione interna.