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Salvaneschi (Fim Trieste) lancia l’allarme emigrazione imprese

È allarme in Friuli Venezia Giulia per l’emigrazione delle aziende. Secondo le rilevazioni della Cisl, infatti, negli ultimi anni, con un’accelerata notevole da quando è cominciata la crisi, quindi dal 2008, centinaia di imprese sono state delocalizzate o aperte ex novo all’estero da industriali friulani.
«Le cifre sono veramente preoccupanti – dice il segretario generale di Fim-Cisl di Trieste, Umberto Salvaneschi -; si parla, infatti, di 600 imprese emigrate nella vicina Repubblica di Slovenia e di almeno mille che hanno trovato spazio in Austria». Un’emorragia che toglie capitali e professionalità dirigenziali alla nostra regione e che va soprattutto a incidere sull’occupazione in Friuli Venezia Giulia.
Se si calcola che ogni impresa emigrata negli Stati contermini può dare lavoro, indicativamente, a 10-15 operai, la ricaduta negativa per la nostra regione ruota tra i meno 16mila e i meno 24mila posti. «In particolare in questo periodo di forte difficoltà economica, che ha visto chiudere i battenti per fallimento e carenza di liquidità molte fabbriche, Slovenia e Austria, più vicine a noi e appartenenti all’Unione Europea, rappresentano un’opportunità da non perdere per chi vuole continuare a produrre».
Fin troppo chiari i motivi: in Italia la burocrazia è diventata troppo schiacciante, soffoca le imprese, non aiuta. All’estero gli stessi procedimenti che da noi sono lunghi ed estenuanti, risultano più snelli e veloci. Incidono molto sulla scelta di emigrare, inoltre, i costi energetici e la pressione fiscale.
Nella nostra regione, come accade nel resto della Penisola, la corrente costa molto di più e la tassazione, su tutti i livelli, è ben maggiore che nei Paesi contermini». Se il Friuli Venezia Giulia, quindi, da una parte offre opportunità economiche importanti per la sua centralità geografica rispetto all’Europa, dall’altra parte penalizza chi vuole impiantare una fabbrica.
«L’emigrazione non riguarda solo imprese del settore della metalmeccanica e della siderurgia, comparti che richiedono un grande impiego di corrente elettrica – spiega il sindacalista – ma anche molte altre realtà produttive. Per frenare il preoccupante fenomeno è necessaria una politica che favorisca il mantenimento in loco delle fabbriche già aperte in Friuli e che renda attrattiva la regione per chi vuole avviare una nuova realtà industriale».